testata camel

La mia migliore amica mi scriveva lunghissime lettere da Venezia proprio mentre c'era il festival del cinema al Lido e gli attori famosi e le attrici andavano in giro in mezzo alla gente e si poteva chiedergli l'autografo.

 

limonare a venezia controluce

Ho cambiato la foto perché ne ho trovata una più bella, anzi ne ho trovate tre e mi toccherà scrivere apposta altri racconti ambientati a Venezia per poterle usare - edit 3 ottobre 2017

 

Mi scriveva lettere di venti pagine su carta pesante azzurrina o verdina che faceno gonfiare la busta tanto che ci doveva mettere due francobolli e mi scriveva solo di suo cugino e una certa Laura e sul fatto che limonare voleva dire che i maschi mettevano la loro lingua nella nostra bocca. Non ci credevo, era impossibile, assurdo, troppo schfoso.
Eppure Laura e Michele lo facevano, lo scriveva in tutte le lettere, diceva che Laura lasciava che lui lo facesse. Ma come fai a saperlo, non puoi aver visto le lingue, ma tu dov’eri? pensavo io ad alta voce mentre leggevo. Pensavo anche che secondo me mi stava facendo uno scherzo, o forse era suo cugino che faceva uno scherzo a lei, se era lui che si vantava era una fanfaronata e lei ci era cascata in pieno, ma io no!

Mi immaginavo la saliva della bocca di un altro, magari ha mangiato la liquerizia e ha i denti neri, o i denti gialli e le gengive rosa, mi immaginavo quelli che ridono con le gengive e mi veniva un conato di vomito.
Non ci credo. Sei sicura?, le rispondevo. Le mie lettere erano corte, per una volta che non dovevo fare i compiti delle vacanze non avevo voglia di impegnarmi troppo a scrivere pensierini, a parte lo schifo che mi faceva solo a pensaci. Chissà quanto avrei dovuto scrivere di lì a poco, in prima media, adesso preferivo giocare. Era lei che da grande voleva fare la scrittrice, non io, io volevo fare la fotografa.
Ogni anno Valeria passava tutto il mese di settembre a Venezia, noi avevamo già finito le vacanze ma la scuola cominciava il primo ottobre, ci trovavamo all’oratorio, oppure anche ai giardinetti o in strada davanti a casa mia a giocare a dire fare baciare lettera testamento o rialzo e lei non vedeva l’ora di raggiungerci perché là si annoiava in spiaggia o alle feste per i grandi che i suoi genitori facevano in quella casa piena di tende svolazzanti e ospiti che parlavano in inglese e camerieri coi guanti anche d'estate.
Michele e Laura si appartavano nella capanna, che non era quella degli indiani ma l’equivalente della cabina che avevamo noi che andavamo in Liguria, ma più grande e con un balcone davanti. Probabilmente lei li seguiva di nascosto e forse li spiava dai buchi nel legno, per questo mi poteva raccontare con dovizia di particolari i maneggiamenti col costume tirato giù ma per la lingua secondo me lavorava di fantasia. Entrambe eravamo allibite del fatto che Laura, che aveva solo un anno più di noi si lasciasse toccare da un maschio. Michele mi piaceva, purtroppo l'avevo confidato a mia mamma perché ero tonta e non tenevo neanche il semolino, così mia mamma l'aveva detto alla sua e forse era venuto a saperlo anche lui, ma non riuscivo a immaginarmi in quella situazione scritta nelle lettere. Il Michele di Venezia era lo stesso Michele con cui si giocava nel salone del seminterrato della casa dove abitavano, lei al quarto piano e lui all'ultimo, dove si facevano le cacce al tesoro e le feste di compleanno e le lotte corpo a corpo per rubarci le tavolette di cioccolato che il loro zio portava dalla Svizzera? Non riuscivo a immaginarmelo questo Michele di Venezia, praticamente un adulto di dodici anni.

 

venezia

 

A Venezia c’ero stata una volta, mio papà ci aveva portato a mangiare i peoci a Malamocco ma non c’erano gli attori del cinema, c’erano solo i piccioni che venivano a beccarti in mano e dei gatti brutti a macchie rosse e nere con il pelo ispido che invece che miao facevano hhh e non veniva nemmeno voglia di accarezzarli, ma forse c’erano e sono io che non mi sono accorta perché già allora non ci vedevo bene. In piazza san Marco ci avevano comprato dei braccialettini fatti con i vetri di murano, a mio fratello un cappello da gondoliere che lui non lo voleva nemmeno mettere ma era obbligato, lo stesso come le scarpe nere di vernice. Non riuscivo proprio a capire come tutto questo avesse fatto diventare il Michele normale che conoscevo io in quello strano come scriveva sua cugina, sarà stata l'aria o la puzza di pesce.
E davvero tutta questa storia è rimasta un mistero perché quando sono tornati a Milano e noi siamo andate in prima media e Michele in seconda, lui era ridiventato normale e noi non ne abbiamo mai più parlato, come se quelle lettere non fossero mai state scritte e nemmeno lette.

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