testata camel

Questa volta metto prima lo spiegone perchè è bello, poi il racconto della casa rossa.

Il titolo dice già tutto ma lo so che ti piace sentirtelo ripetere, vieni qui vicino che te lo soffio nell'orecchio: voglio il peccato.
Prendi un personaggio, mettilo in tentazione, offrigli una possibilità di scelta e poi mostrami suoi pensieri più segreti, i fatti e le intenzioni, il suo mondo, le opere e le omissioni. Può cadere nel peccato, credere per ingenuità d'esserci caduto e dolersene senza ragione o cadere senza saperlo e scoprirlo troppo tardi, come Edipo. Può salvarsi se vuoi, pentirsi e godere di una tardiva redenzione, sei tu l'onnipotente, l'artefice di ogni destino, e poi non è detto che il peccato si debba compiere, basta che ne sia evocata la possibilità, che ci sia la certezza del rischio, la paura, il dolore.


A margine, come se non fosse ovvio, sottolineo che non occorre essere credenti per avere il senso del peccato e non si tratta necessariamente di qualcosa che ha a che fare con la religione: si può essere atei, agnostici o pagani e avere ugualmente principi etici, leggi naturali, istintive, morali e laiche che possono essere trasgredite con conseguenze disastrose: difatti io dico peccato tanto per capirsi. Pensa che solo l'altro ieri Scalfari sosteneva che Papa Francesco ha abolito il peccato - come se fosse possibile, dopo millenni di condizionamento dovuto alla matrice giudaico cristiana a cui apparteniamo.

 

Ma torniamo a fanti: quello che conta in un racconto significativo è il conflitto tra quello che uno vuole fare, quello che pensa di dover fare e quello che gli riesce di fare.

La letteratura insegna che è anche interessante il problema del rimorso dopo che il delitto è stato compiuto, per non parlare dell'attesa del castigo. Il peccato può essere contro se stesso o contro gli altri, contro una legge di natura, contro la società o contro la cultura.
Per il rosso lascio fare a te, so che ne saprai esplorare le tonalità più profonde.
E ora la difficoltà che ci devo mettere, il gradino da arrampicare - mi dispiace ma è necessario, è per il tuo bene e lo sai, altrimenti non si diventa più bravi e tutto questo non serve a niente: voglio che nella tua storia agiscano almeno tre personaggi e che ci sia qualche battuta di dialogo mostrato col discorso diretto.

Lascio tre settimane per aspettare chi è in vacanza e gioca solo dal lavoro, ah ah. Chi gioca anche da casa può scriverne più di uno, siamo qui apposta.

Dunque scrivi sul tuo blog un racconto rosso e mettici dentro queste cose:

- un peccato
- tre personaggi
- qualche battuta di dialogo
- entro il 21 gennaio vieni qui a dirmelo
- cita gli altri e sarai citato

la casa rossa esercizio di scrittura rosso come il peccato

La casa rossa

Avevo finito per affezionarmi a quella casa troppo cara, troppo grande e troppo lontana. Anna l'aveva presa in affitto senza interpellarmi. Solo per un mese, aveva detto. Poi eravamo tornati là ogni estate. Invitavamo spesso coppie di amici ma anche se ci andavamo noi due non si era mai soli.

Gli ospiti si guardavano intorno, facevano un sacco di complimenti alla bouganville che si arrampicava sul portonicino, al colpo d'occhio dell'ingresso sul soggiorno spazioso, i divani bianchi, i pieni e i vuoti ben calibrati, le librerie, i tavolini, la cucina attrezzata di tutto punto. Tutti trovavano il modo di lodare il buon gusto con cui erano accostati i mobili, fin troppo per una casa delle vacanze, e tutti, immancabilmente, appena aprivamo la portafinestra sul retro, quella che dava sul patio aperto verso la scogliera di Capo d'Orso, si zittivano di colpo, ammutolivano. Un sentiero di sabbia rosa tagliava una conchetta digradante coperta dai cespugli di mirto, euforbia e di elicriso che mandava su il profumo fino a lì. Sui due lati un piccolo anfiteatro di rocce striate dal vento e in mezzo la riga bianca della sabbia, il celeste chiaro dell'acqua limpida, le macchie delle alghe sul fondo, il turchese che si faceva più scuro in lontananza. Lo scorcio appariva sempre diverso, a seconda dell'ora, della luce, del vento che plasmava la superficie del mare e la cospargeva di scintille al mattino, la increspava di grigio con la brezza di terra, la animava con la potenza delle onde quando soffiava il ponente. La schiuma allora colorava di bianco tutta la baia, portava l'odore di salsedine fino alla terrazza. Le imposte sbattevano e l'inquietudine si trasmetteva alle persone. Una vista mozzafiato, dicevano tutti appena si riprendevano dallo sgomento, un paesaggio straordinario, selvaggio e commovente al tempo stesso.

In realtà era tutto artificiale, la macchia mediterranea era stata piantata, le rocce erano state messe in modo da creare una quinta per nascondere la vista delle ville poste ai lati, pini marittimi, olivastri, cespugli e blocchi di granito facevano da muro divisorio discreto e gradevole a questo complesso di villette a schiera di livello, rosse come le rocce della Sardegna.

Conoscemmo i vicini dopo pochi giorni, ci invitarono a una grigliata in terrazza. Anche dal loro portico si godeva dell'illusione di essere in un eremo, le ville mimetizzate nell'eden artificiale erano una dozzina e gli inquilini di quell'estate erano tutti lì.

Consegnai al padrone di casa la mia bottiglia di Berlucchi già freddo, lui mi ringraziò e la portò in cucina.

“Beppe, vieni che ti presento gli amici” mi disse, mettendomi in mano un flûte. Mi spinse verso la terrazza. Una serie di fiaccole al piretro erano disposte sul perimetro del patio. Sui tavolini sparsi in giro c'erano vassoi di tartine e sushi, bicchieri col gambo esagerato, secchielli pieni di ghiaccio e bottiglie di Dom Pérignon.

Anna era sparita con la moglie del vicino e quando poco dopo la rividi in mezzo agli ospiti, per un attimo mi parve di non conoscerla. Aveva un vestito bianco scollato, il sole che aveva preso le faceva brillare la pelle, sembrava più liscia, più luminosa, più nuova quasi. Sorrideva piegando la testa di lato, non sentivo le sue parole ma le vedevo muovere la mano con grazia, disegnava nell'aria qualcosa e non mi era mai sembrata così bella.

Quella sera si bevve molto. Non avevo capito la metà dei nomi e avevo dimenticato subito l'altra metà. Non riuscivo a seguire i discorsi per più di tre minuti, parlavano di cose che non sapevo, di gente che non conoscevo e di cui nemmeno mi importava. Guardavo Anna da lontano e la vedevo brillare nel suo alone dorato, emanava infrarossi e profumava l'aria col doposole che le friggeva sulla pelle. Non vedevo l'ora di tornare a casa per fare l'amore.

Quasi ogni sera ci furono feste in terrazza o cene minimaliste con pochi invitati, l'interazione tra gli abitanti del complesso era fortemente incoraggiata, probabilmente faceva parte del pacchetto. Io non amavo quel genere di passatempo, stare in piedi tutta la sera con un bicchiere in mano e un sorriso finto in bocca non era il mio stile di vacanza. Anna ci sguazzava, era la sirena nella baia, gli occhi scintillanti come l'acqua della nostra caletta: se io non ne avevo voglia ci andava lei, come facevo a dirle di no.

Una domenica mattina mi svegliai col mal di testa. Allungai una mano nel letto ma Anna non era lì. Non era nemmeno in cucina, non era in casa. Mi scaldai un po' di caffè e me lo portai nel patio con una pastiglia, speravo che l'aria fresca mi snebbiasse l'alcool della sera prima. La vidi svoltare la siepe di ginepro coi sandali in mano, i capelli arruffati, il trucco colato sotto gli occhi.

Non le chiesi dove fosse stata.

Prese una sedia e la trascinò lì vicino. Mi toccò il ginocchio. Teneva la testa bassa, i capelli le sfioravano il viso.

“Beppe” disse piano.

Io ero spaventato, stupito, arrabbiato. Non sapevo cosa stesse per succedere. Ero deluso e avevo tanta paura.

“Beppe.”

Zitta. Stai zitta per favore. Non voglio sapere niente. Avrei voluto dirle questo. Avevo anche aperto la bocca per parlare. Ma non mi uscì la voce.

Lei guardò la baia, il sole era già alto, era entrata la brezza e faceva tremare le foglie del corbezzolo.

“Sono una merda” disse riabbassando gli occhi.

Io fissavo imbambolato i piedi nudi che lei strofinava per terra. Il pavimento di cotto era coperto da un sottile strato di sabbia portata dal vento, si distinguevano le orme che aveva lasciato arrivando dalla spiaggia, le strisce della sedia spostata, lo scalpiccìo nell'area che calpestava adesso, dondolandosi avanti e indietro come se toccasse terra appena, come se la sedia fosse altissima o lei piccolissima. I suoi piedi affusolati, le unghie rosse, i granelli di sabbia minuscoli che luccicavano tra le dita abbronzate, il tallone polveroso.

“Scusami.”

Scusami un cazzo, avrei dovuto dire. O anche solo taci, vai a lavarti, che è meglio. Schifosa.

Niente, non riuscivo nemmeno a deglutire.

“Un po' me l'aspettavo, da Enzo, erano giorni che ci provava” continuò, rauca.

Enzo. Enzo! Ovvio. Dovrei sentirmi meglio. Anzi, lusingato. E tranquillo. Passato pericolo. Invece.

La guardai e mi feci pena. Non sono stato capace di badarle, l'ho lasciata a disposizione di Enzo, fin troppo facile.

“Dovevamo andare a fare il bagno fuori con il tender della Gioconda, eravamo in tanti. Ma poi gli altri hanno cambiato idea all'ultimo momento e sono rimasta solo io.” Mi scrutava attraverso i capelli, allungò una mano verso di me. Io ebbi un brivido. Lei sussultò a sua volta, non mi toccò. Prese il bicchiere con l'acqua avanzata.

“Posso?”

Perfetto, così l'impresa è omologata, Enzo non dovrebbe essere più un problema. E' andato in meta e ha timbrato. Il tributo umano è stato pagato, l'iniziazione completata. Mi veniva da ridere. O forse da piangere. Ma non riuscivo. Non riuscivo a muovermi. Ormai. Avrei voluto fare una cosa qualsiasi. Alzarmi e andare via. Salire in macchina e guidare fino a Milano. Prenderla a schiaffi magari. Insultarla.

Sbattevo gli occhi e respiravo con la bocca aperta. Un cefalo nell'acqua bassa ero, meritata preda di ogni uccello che si trovasse a passare di lì.

“Col tender siamo andati alla barca, già che eravamo lì abbiamo bevuto una bottiglia che aveva in frigo. Il marinaio era sceso a terra. Sai com'è.”

“No. Non lo so com'è.” Mi alzai di scatto. Lei mise davanti il gomito, come per proteggere la faccia.

“Ti sembro uno che picchia le donne?” dissi. Le voltai le spalle. Finalmente.

Entrai in casa, attraversai il soggiorno quasi di corsa, andai in cucina e mi versai dell'altra acqua.

Non parlammo più di questo.

Negli anni ho avuto modo di prendermi qualche piccola rivincita, di tanto in tanto. Ho anche procurato che Anna ne fosse debitamente informata. Col beneficio del dubbio: sono sempre un signore. E anche Enzo, ovviamente, e tutti gli altri.

Continuavo a non divertirmi alle feste dei vicini ma purtroppo non si può fare tutto quello che si vuole.

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