testata camel

Nei miei begli anni ho frequentato qualche laboratorio di scrittura, il primo con Laura Lepri presso il Teatro Verdi a Milano, si trattava di un corso che era stato di Giuseppe Pontiggia, un grande autore che ho avuto modo di ascoltare in un paio di lezioni che ci aveva tenuto, ma a quei tempi ero ancora un pi’ troppo cruda per fare tesono appieno di questa opportunità.
Un bel po’ di anni dopo ho conosciuto Paolo Cognetti che era un giovane regista di belle speranze: avevo adorato i suoi due libri, due raccolte di racconti uscite con Minimum Fax e accettai con gioia il suo invito al laboratorio di scrittura che avrebbe inaugurato alla Scighera. È stato un periodo di scrittura felice: io sostenevo di scrivere solo per divertimento, non avevo velleità di pubblicazione e producevo con lena tutti i racconti che venivano assegnati come compito, mi offrivo volontaria alla lettura pubblica e accettavo le critiche come una preziosa occasione di crescita.

scolari dei laboratori di scrittura creativaSi scrivevano racconti in tre parti, o in tre fasi, secondo la scuola di scrittura creativa americana e questo sistema aveva anche una sua utilità pratica perché si potevano costruire racconti corposi maneggiandone un pezzo alla volta. La lettura dei testi in aula è il momento più noioso della lezione e se il racconto è molto lungo si porta via la maggior parte del tempo a disposizione, ma se si tratta solo di uno dei tre blocchi si fa più presto e bene. Il bello dei laboratori invece è la discussione: sulla trama o sulla struttura, i consigli su come cambiare questa o quella soluzione per far funzionare meglio la storia, non tanto le questioni linguistiche quanto proprio la gestione del materiale narrativo.
Sviluppare la propria voce è importante, sia chiaro, ma per spolverare gli avverbi ci sono gli editor, vale a dire i revisori assegnati dalla casa editrice eventuale o ingaggiati dagli autori stessi: chi ti assicura invece che la tua storia acchiappa i lettori? se i personaggi sono interessanti, amabili o odiabili ma vivi, verosimili? Dando per scontato di avere tutti un livello di correttezza sintattica sufficiente e una minima capacità di mantenere il registro linguistico scelto, per istinto o per studio o per esperienza.

Paolo Cognetti in questi anni ha scritto tanti altri racconti che sono diventati libri, il suo talento non è passato inosservato e il successo gli è arrivato abbastanza presto. Lui diceva di preferire il racconto come forma di narrativa breve, ma poi quando ha scritto un romanzo se l'è cavata molto bene subito al primo colpo e ha vinto il premio Strega, segno che non ha mai smesso di mettersi in gioco, provare e rischiare in maniera onesta, come cercava di insegnare a noi scolari.

Così la storia di questo pezzo con due finali acquista il suo perché: la seconda e terza parte erano sembrate a Paolo deboli e poco credibili, non funzionavano bene come l’inizio e abbattevano il racconto, forse gli cambiavano anche registro e genere. La trama, l’ambientazione, i personaggi, niente era all’altezza dell’inizio e così ho preso il coraggio a due mani, ho buttato via tutto e riscritto il seguito, ho stravolto completamente la trama e l’ho portato da un’altra parte.

Poi non l'ho proprio buttato via, l'ho tolto di lì e l'ho messo da parte e difatti adesso si può confrontare con quell'altra versione che è stata poi approvata e pubblicata anche sul sito della Scighera. Quale è meglio? tante volte il giudizio del pubblico non coincide con quello degli addetti ai lavori, sul vecchio blog i commenti si sono equamente divisi tra le due versioni

Pubblico qui il racconto completo: prima la parte comune e poi le due alternative: la A è quella che è stata scelta come adeguata dal laboratorio e la metto per prima così chi vuole lo legge tutto di seguito e poi basta, per chi è curioso di leggere anche la versione non piaciuta,  può continuare sul lato B è quello che contiene la seconda e la terza parte che sono state scartate, i contenuti speciali.

 

Nei miei begli anni ho frequentato qualche laboratorio di scrittura, il primo con Laura Lepri presso il Teatro Verdi a Milano, si trattava di un corso che era stato di Giuseppe Pontiggia, un grande autore che ho avuto modo di ascoltare in un paio di lezioni che ci aveva tenuto, ma a quei tempi ero ancora un pi’ troppo cruda per fare tesono appieno di questa opportunità.
Un bel po’ di anni dopo ho conosciuto Paolo Cognetti che era un giovane regista di belle speranze: avevo adorato i suoi due libri, due raccolte di racconti uscite con Minimum Fax e accettai con gioia il suo invito al laboratorio di scrittura che avrebbe inaugurato alla Scighera. È stato un periodo di scrittura felice: io sostenevo di scrivere solo per divertimento, non avevo velleità di pubblicazione e producevo con lena tutti i racconti che venivano assegnati come compito, mi offrivo volontaria alla lettura pubblica e accettavo le critiche come una preziosa occasione di crescita.

scolari dei laboratori di scrittura creativaSi scrivevano racconti in tre parti, o in tre fasi, secondo la scuola di scrittura creativa americana e questo sistema aveva anche una sua utilità pratica perché si potevano costruire racconti corposi maneggiandone un pezzo alla volta. La lettura dei testi in aula è il momento più noioso della lezione e se il racconto è molto lungo si porta via la maggior parte del tempo a disposizione, ma se si tratta solo di uno dei tre blocchi si fa più presto e bene. Il bello dei laboratori invece è la discussione: sulla trama o sulla struttura, i consigli su come cambiare questa o quella soluzione per far funzionare meglio la storia, non tanto le questioni linguistiche quanto proprio la gestione del materiale narrativo.
Sviluppare la propria voce è importante, sia chiaro, ma per spolverare gli avverbi ci sono gli editor, vale a dire i revisori assegnati dalla casa editrice eventuale o ingaggiati dagli autori stessi: chi ti assicura invece che la tua storia acchiappa i lettori? se i personaggi sono interessanti, amabili o odiabili ma vivi, verosimili? Dando per scontato di avere tutti un livello di correttezza sintattica sufficiente e una minima capacità di mantenere il registro linguistico scelto, per istinto o per studio o per esperienza.

Paolo Cognetti in questi anni ha scritto tanti altri racconti che sono diventati libri, il suo talento non è passato inosservato e il successo gli è arrivato abbastanza presto. Lui diceva di preferire il racconto come forma di narrativa breve, ma poi quando ha scritto un romanzo se l'è cavata molto bene subito al primo colpo e ha vinto il premio Strega, segno che non ha mai smesso di mettersi in gioco, provare e rischiare in maniera onesta, come cercava di insegnare a noi scolari.

Così la storia di questo pezzo con due finali acquista il suo perché: la seconda e terza parte erano sembrate a Paolo deboli e poco credibili, non funzionavano bene come l’inizio e abbattevano il racconto, forse gli cambiavano anche registro e genere. La trama, l’ambientazione, i personaggi, niente era all’altezza dell’inizio e così ho preso il coraggio a due mani, ho buttato via tutto e riscritto il seguito, ho stravolto completamente la trama e l’ho portato da un’altra parte.

Poi non l'ho proprio buttato via, l'ho tolto di lì e l'ho messo da parte e difatti adesso si può confrontare con quell'altra versione che è stata poi approvata e pubblicata anche sul sito della Scighera. Quale è meglio? tante volte il giudizio del pubblico non coincide con quello degli addetti ai lavori, sul vecchio blog i commenti si sono equamente divisi tra le due versioni

Pubblico qui il racconto completo: prima la parte comune e poi le due alternative: la A è quella che è stata scelta come adeguata dal laboratorio e la metto per prima così chi vuole lo legge tutto di seguito e poi basta, per chi è curioso di leggere anche la versione non piaciuta,  può continuare sul lato B è quello che contiene la seconda e la terza parte che sono state scartate, i contenuti speciali.

 

La data di scadenza è indicata sulla confezione - prima parte comune

Simone oggi lavora. E’ appena uscito da scuola e cammina veloce, non si ferma all’angolo di piazza Massari. Lo vedono da lontano, Vittorio a cavallo del suo Malaguti lo chiama, Fede gli fa un gran gesto con le dita a mazzetto.
“Non posso” grida lui dall’altra parte della strada.
A casa lo aspetta un piatto di pasta nel micronde e se va bene una lattina di coca in frigo.
Accende la tele e si stravacca sul divano col piatto in grembo e i piedi sul tavolino, anfibi compresi.
Non gli dispiace aiutare suo padre dopo la scuola. Lo paga e oltre a questo lo tratta bene, gli dice le cose senza urlare e lui non se le fa ripetere due volte. Sono anche lavori di responsabilità, come contare i pezzi per l'inventario, a volte gli fanno guidare il muletto, mica cazzate da ragazzini.
Mette il piatto e la forchetta nel lavandino e tira fuori i quaderni. Due espressioni e un esercizio di inglese, storia la studierà stasera dopo cena, vuole sbrigarsi per correre al magazzino. Alle tre e mezza è sulla novantadue, si è messo un paio di jeans vecchi e la felpa di una tuta per non rovinare il chiodo. Suo padre indossa sempre un camice verde sopra i vestiti ma lui non arriva a tanto.
“Bravo Simone, vieni che è arrivato il camion della Ferrero” dice il signor Pino “sono tre pallet da mettere a posto."
“E mio padre?”
“E’ in ufficio.”
“Vado a salutarlo.”
Percorre il corridoio scuro tra gli scaffali accompagnato dall’odore di cartone e di muffa, sfregandosi le mani per il freddo. Sembra che tiri vento ma sono i suoi passi veloci incontro all’aria del capannone. In fondo c’è la cabina ufficio con le pareti vetrate e suo padre seduto alla scrivania che spunta le voci di un elenco.
Simone si appoggia con la spalla allo stipite della porta e aspetta. Lo sa che l’ha sentito arrivare.
“C’è da mettere via tre bancali della Ferrero” dice il signor Augusto senza alzare gli occhi.
“Me l’ha detto Pino.”
“E allora vai. Cosa aspetti?”
“Niente.”
Gira i tacchi come un soldato e rifà a passo di marcia tutto il corridoio.
I tre bancali sono stati posizionati davanti allo scaffale giusto. Deve prendere gli scatoloni e appoggiarli sui ripiani, stando attento che si vedano i codici a barre. Deve spostare avanti quelli vecchi, se ce ne sono, in modo che non vadano in scadenza prima di essere venduti. Si dà da fare con impegno e molto presto sente il caldo salirgli dalle ascelle, la schiena gli suda.
Quando ha finito accatasta i tre pianali di legno uno sopra l’altro e li porta fuori in cortile col muletto. Adesso ha sete e va verso l’ufficio per prendersi una bottiglietta d’acqua. C’è Pino che sta discutendo con suo padre, lo vede gesticolare, mentre suo padre parla muovendo appena la bocca. Quando Simone entra nel gabbiotto tacciono entrambi e lo guardano.
“Hai già fatto i compiti?” gli chiede il padre.
“Sì.”
“Fino a che ora stai qui?”
“Tu quando vai a casa?”
“Se non hai da fare ci sarebbe un lavoretto per te.”
Pino lo guarda male.
“C’è qualcosa che non va?” chiede Augusto, secco.
“No, no. Per carità. Faccia come crede.”
Simone guarda ora l’uno ora l’altro e non capisce. Pino esce e non dice più niente. Non saluta neanche.
“Siediti qui che ti spiego.”
Simone si siede e gli sembra strano che suo padre si perda a parlare con lui. Gli sembra che non abbia mai avuto niente da dirgli. Poi non è neanche vero, quando erano in macchina per andare al mare e lui era piccolo gli spiegava come funzionava lo spinterogeno e il mulino a vento e le cose che vedevano passare. E in acqua, mentre gli teneva una mano sotto la pancia gli diceva come doveva muovere le gambe e le braccia, faceva diventare facili anche le cose difficili con la sua voce tranquilla. Gli sembrano secoli ma sono solo pochi anni, a pensarci. Il padre ha sempre lo stesso tono di allora, usa frasi brevi e si ferma spesso, come per assicurarsi che non si perda, che gli venga dietro. Ha anche la stessa faccia di allora, solo i capelli un po’ più radi, la fronte più alta. Simone invece è tutto diverso.
“Mi segui?”
Simone sbatte gli occhi due, tre volte. Non può aver sentito quello che suo padre gli ha appena detto.
“Non so se ho capito.”
“Non è difficile. Vuoi che ti faccio un disegnino?” dice Augusto. Sorride.
“Ma scusa, non è pericoloso?”
L’uomo stringe le labbra. Non risponde.
“Ma papà.”
“Le date di scadenza sono indicative. Se è ben conservata la carne è ottima anche una settimana dopo. E questa è molto ben conservata. Puoi stare tranquillo che non avveleniamo nessuno.” Sorride ancora.
“Bè, comunque è illegale. No?”
“Sì. Ma è anche uno spreco buttare via tutta quella roba ancora buona da mangiare.”
Simone alza gli occhi e li pianta in quelli di suo padre. Cosa vuole dire, veramente?
“E poi non posso fare altrimenti,” continua rassegnato. “Lo fanno tutti.”
“Tutti?” dice Simone voltando la testa di scatto, “tutti chi? E poi, non eri tu a dirmi di non seguire…”
Augusto lo ferma, mostrando il palmo di una mano aperta, “Sì sì, ma questo non c’entra col conformismo. Io sono costretto a fare così altrimenti non lavoro.” Incrocia le braccia sul petto, si appoggia allo schienale della sedia.
“Hai presente le gare di appalto? Le mense, le scuole, la pubblica amministrazione. Tutti vogliono risparmiare e fanno i contratti con chi offre i prezzi più bassi.”
Simone tace. Pensa al rumore dei bambini nello stanzone della refezione, alla sua maestra preferita, la Giovanna. A Vittorio che buttava bocconi di bistecca mezzo masticata sotto il tavolo senza farsi vedere.
Si gratta la nuca. Sfrega i piedi sul pavimento di linoleum. Guarda suo padre.
“Papà, quella carne non è scaduta qui da noi.”
Augusto aspetta, la faccia senza espressione.
“Col nuovo schedulatore la merce resta in magazzino due giorni, al massimo tre. Ho sentito il tizio quando spiegava a Pino come funziona, l’ottimizzazione della gestione del magazzino diceva. L’hai comprato apposta quel programma, dicevi che era costato un sacco di soldi.”
Augusto tira un respiro rumoroso, sta cercando le parole per non disorientarlo, ma è difficile. E’ così intelligente il suo ragazzo. Fin troppo.
“L’alternativa era chiudere o fallire. Fare la fame. Chi mi assume come dipendente alla mia età? Come ci campiamo, in quattro? Con lo stipendio della mamma? Ci ho anche provato, e solo per pochi mesi, qualche anno fa. Ti ricordi quella volta che non siamo andati in vacanza?”
Si ricorda. Un’estate bellissima a girare in bicicletta per i parchi di Milano, loro due e la mamma con la Cate sul seggiolino.
“Quindi sono già tre, quattro anni. E nessuno è venuto a fare dei controlli in tutto questo tempo?”
“Guarda, è meglio che ci fermiamo qui, non occorre che tu sappia tutti i particolari. Lo dico per te.” Distoglie lo sguardo, si passa una mano sulla nuca.
“E comunque,” continua, “tu hai un'idea migliore?”
“Mamma mia, mamma mia.” Simone scuote la testa, vorrebbe che non fosse vero niente.
Vorrebbe essere al parchetto a fare lo scemo sul motorino. E’ un mese che non lo tira neanche fuori dal box. Ma perché?
“E il signor Pietro lo sa? Certo che lo sa, come potrebbe non saperlo. E cosa…”
“Non voleva che ti mettessi in mezzo. Pensava tu fossi troppo piccolo per certe cose. Ma io credo di no.”
Simone non dice più niente. Fa sì con la testa. Ha capito. Rimangono in silenzio per un tempo infinito.
“Va bene, merda. Solo per questa volta. Poi non voglio saperne più niente.”
Si alza dalla sedia. Volta le spalle al padre. Esce dal gabbiotto. Va verso la cella
frigorifera, indossa la palandrana e quando entra la botta di gelo gli schiaffeggia la faccia.

La data di scadenza è indicata sulla confezione - FINALE A

Dopo un numero definito di anni, una tiepida mattina di ottobre, questa mattina, Simone ha deciso che non si muoverà mai più.
Il cellulare ha suonato la sveglia ogni cinque minuti, la vibrazione l'ha fatto camminare verso l'orlo del comodino, è caduto e la batteria è uscita dal suo alloggiamento. Simone è sveglio, si è tirato il lenzuolo sulla testa e concentra tutta la sua volontà nel mantenere le braccia, le gambe, la pancia e tutto il resto fermi immobili.
Non infilerà i piedi nelle pantofole dal calcagno schiacciato, non calpesterà il tappeto sardo che una volta era bianco e adesso è rosa per un lavaggio sbagliato, non aprirà la porta della sua camera coi segni del poster che è stato strappato via.
Non accenderà la luce del corridoio e nemmeno quella del bagno, non si laverà, non si sbarberà, non si vestirà. Tanto meno farà colazione cappuccino e brioche con la marmellata al bar sotto casa, non prenderà la metropolitana e non andrà all'università all'appuntamento con il prof. Zanetti.
Simone non muove nessuna parte del suo corpo eccetto lo sterno a causa della dilatazione polmonare. Sa che se provasse a smettere di respirare le contrazioni involontarie del torace gli procurerebbero movimenti più decisi e scomposti. Sugli organi interni per ora non può esercitare un controllo diretto, il cuore batte e i fluidi scorrono. Respira.
Si concentra sull’alluce sinistro. L'unghia dell'alluce sinistro, i peli neri sulla superficie della falange, le rughe della pelle sull'articolazione. Con gli occhi chiusi si immagina di guardarla, si immagina di essere tutto alluce e niente altro. Questo vuole essere, non quello che è. Mette tutte le energie in questa identificazione, nel controllo del respiro, dei muscoli e dei nervi. Nel resistere al prurito, al caldo, ai pensieri molesti in agguato. E' faticoso ma se allentasse lo sforzo anche solo per un attimo gli tornerebbe in mente quello che è e che non vuole essere. E Zanetti. La tesi. Suo padre. Cristina.
Conta. Da cento a zero. Un respiro un numero. Il rumore dell'aria che entra nel naso. La trattiene. Le mascelle serrate. La lingua contro il palato. Cerca di tenere fermi anche i globi oculari. Cristina. La sua immagine irrompe nel cervello, si sovrappone. Simone perde il conto dei numeri. Cristina non ha ancora chiamato ma lo farà. Gli occhi grandi di Cristina. La faccia di Cristina con il telefono sull'orecchio, la testa piegata di lato, lo sguardo interrogativo. La voce di Cristina. Lontanissima. Il cellulare è spento. Chiamerà a casa. Chiederà di lui all'università. Suonerà alla porta.
Tachicardia.
Respiro. Ottantasette. Respiro. Ottantasei. La lunetta più chiara, le pellicine. Il cuscinetto tenero del polpastrello. La carne. Lo studio della predittività dei dispositivi integratori tempo-temperatura nella conservazione alimentare.
Tachicardia.
Zanetti ti prego lasciami stare. Ce l'ho la bibliografia. Giuro che ho cominciato a scrivere. Il sommario. Il primo capitolo. Vabbè, paragrafo. Rigo. Non. Zanetti ci vediamo domani al bar di via Ponzio. Zanetti dimenticati di me. Scusi proff. Chiedo scusa.
Io non esisto, Zanetti, io sono un alluce.
Simone lo sa che alle dodici e mezza arriverà sua madre. Alzerà la tapparella e gli chiederà cos'ha, gli si pianterà davanti con le mani sui fianchi. Gli toccherà la fronte con il dorso della mano e poi con le labbra. Gli strapperà il lenzuolo di dosso. Gli parlerà dolcemente e poi si arrabbierà e griderà.
Mamma sto male. Mamma lasciami non esistere. Mamma fammi la tesi. Mamma dillo tu a Cristina che sono uscito. Dille che non torno, che non sai dove sono.
Mamma tieni mio padre lontano da me.
Non ce la fa. Simone non riesce più a controllare i suoi pensieri. Tra poco si muoverà. Può aspettare sua madre oppure alzarsi ora, uscire di casa e camminare. Prendere un tram a caso e non tornare indietro. Prendere la metro verde e scendere a Piola, cercare Zanetti, scusarsi e rammendare la figuraccia che ci sta facendo. Scendere a Centrale e salire sull'Eurostar per Napoli. Chiudersi nello sgabuzzino dietro alle valige. Prendere la novantadue fino al magazzino e aspettare suo padre. Aspettare. Non fare nulla. Stare fermo immobile. Concentrarsi su una parte del suo corpo. L’alluce sinistro.

Si sente il rumore della chiave, quattro mandate. Luciana, la mamma di Simone, è tornata. Tra poco entrerà nella stanza. Posa la borsa in sala, lascia le scarpe in bagno e apre la porta. Non accende la luce, non alza la tapparella, non dice niente. Simone è immobile sotto il lenzuolo, il cuore in gola.
Il materasso si piega sotto il suo peso, le molle gemono piano. Luciana si è seduta sul letto vicino a lui e gli cerca la mano attraverso il lenzuolo. Lo tocca per un momento.
“Simone."
Silenzio. La mamma fa un respiro.
“Senti. C’è qualcosa che non va, vero?” Luciana aspetta.
“Mi ha chiamato Cristina.” Un’altra pausa lunghissima.
“Mi ha detto che ti aspettava all’università. Hai staccato il telefono.”
“Mamma.”
Luciana aspetta, paziente.
“Mamma, ho un problema.”
“Eh. E’ per la tesi?”
“Anche.” Simone abbassa il lenzuolo, si scopre la faccia e respira.
“Anche? Vuoi dire che gli esami…”
“No, no, gli esami li ho fatti tutti. Ma la tesi.”
“La tesi?”
“La tesi no.”
“Va bene. Cosa ti manca?”
“Tutto.”
“Come tutto?”
“Mamma.”
Luciana accavalla le gambe, fa tremare il letto.
“Non dirlo a papà.”
“Eh. Mica è scemo. Ce ne siamo accorti da un po’ che c’è qualcosa che non va. Si sono laureati già tutti.” Luciana si ravvia una ciocca di capelli, la mette dietro l’orecchio.
“Hai problemi con il professore?”
“Ma no. Il proff non c’entra. E’ che sono bloccato. Non vado avanti. Non è solo che ci sto mettendo troppo. “
“Oh. Io ci avevo messo più di un anno a fare la mia. E’ normale.”
“No che non lo è. Non è come una volta mamma. La tesi della triennale è più semplice, si dovrebbe fare in pochi mesi. Io ho già perso un anno al liceo e mi sono iscritto fuori corso e se non la consegno entro dicembre dovrò pagare un altro anno e…”
“E?”
“E.”
“Ma hai anche lavorato. Ti sei pagato le tasse. Fa niente.”
“No, non è così semplice.”
“No?”
“No.”
Luciana ha lasciato la porta aperta e ora che si è abituata alla penombra riesce a vederlo. Ha sulle labbra la stessa espressione che faceva da bambino quando stava per piangere.
“Cosa vorresti fare?”
“Non so.”
“Non è che ti stanchi troppo? Quel lavoro al pub, fai tardi tutte le sere.”
“Sono abituato. Quando seguivo i corsi alla mattina e poi dovevo anche studiare era faticoso. Ma adesso.”
”E allora?”
“Non so.”
“Dai, alzati e fatti una doccia che tra poco arriva tuo padre. Parlane con lui.”
“Non mi va.”
“Va bene, allora gli parlo io.”
“Lascia perdere.”
“Simo, non pensare di poter andare avanti così per sempre eh.”
“Ma lo so. E’ che sono. Bloccato. Ogni volta che apro il file della tesi mi viene. Non so. Mi passa la voglia. Mi distraggo. Mi perdo. Poi mi sento una merda. Ma non posso farci niente. Mi viene un morso nello stomaco. Come di paura. Mi viene un sudore su tutto il corpo e un sapore di marcio in bocca. E il cuore mi esce dalle orecchie.”
“Ma perché?”
“Non lo so.”
“Ma se non lo sai tu cosa posso fare io? Posso parlare a papà.”
“Senti mamma. Vorrei chiederti una cosa. Una cosa che non ho mai detto a nessuno.”
“Dimmi.” Luciana si sposta un po’, il letto scricchiola.
“Ti ricordi quando ero in prima liceo, che andavo a lavorare in magazzino?”
“Sì.”
“Ti ricordi che a un certo punto non ci sono più andato?”
“A un certo punto non ci sei più andato. Quando è stato?”
“Andavo agli allenamenti, ti ricordi?”
“Più o meno. Ci sei andato per un sacco di tempo.”
“Una cosa che non sai è che gli allenamenti erano una scusa.”
“Una scusa? Non ci andavi? E dove…”
“Ma sì, ci andavo. Ma la passione per il kali e le arti marziali. Non era vero, era una scusa.”
“In che senso?”
“Mamma, tu lo sai cosa fanno papà e gli altri?”
“Eh?”
“Mamma. Papà lavora in un modo…”
“Ah sì, papà lavora tantissimo. A volte è…”
“No. Aspetta. Lasciami parlare.” Simone si passa una mano sulla faccia. Guarda verso la finestra, le tendine ondeggiano appena per l’aria che passa attraverso la tapparella chiusa. Luciana aspetta.
“Mettevo a posto gli scatoloni. A volte scaricavo i camion. Mi piaceva, mi sentivo grande. Avevo i soldi in tasca.” Si sposta indietro, verso la testata. Raccoglie le ginocchia tra le braccia, ci appoggia sopra il mento.
“Mamma. Papà falsifica le date di scadenza. Vende carne già scaduta per buona. Corrompe quelli che dovrebbero controllare.”
“Ma và, ma cosa ti viene in mente.” Luciana ride, scuote la testa, “conosco tuo padre, è impossibile.”
“Anche io credevo di conoscerlo. Ti giuro che è vero, l’ho fatto io con le mie mani.”
“Ma dai, Simo, non ci credo.”
“Prova a chiederlo a lui.”
“Se fosse vero… dico per ipotesi, se fosse vero sarebbe una cosa molto grave. Fornisce le scuole, anche la mia. Ma tu come…”
“Me l’ha detto lui.”
“Quando?”
“L’ultima volta.”
“Quando eri al liceo?”
“Sì.”
“E perché lo fa?”
“Diceva che non poteva farne a meno.”
Luciana pensa. Ma io dov’ero quanto succedevano queste cose? Cosa stavo facendo? Le tornano in mente periodi di benessere che aveva accettato senza farsi troppe domande, antiche incongruenze che non aveva mai avuto voglia di approfondire. Ne aveva già abbastanza dei suoi di problemi, il cambio del direttore didattico e le circolari dal ministero, giudizi estesi, giudizi sintetici, voti in numeri, voti in lettere, pagelle, pagellini, la pianificazione da organizzare con le colleghe, i genitori. E i bambini. I suoi bambini che non diventano grandi mai. Ogni ciclo ritornano piccoli e si ricomincia da capo. Ogni ciclo con più esperienza e con meno energie. E Caterina e Simone che, loro sì per fortuna, diventavano grandi e avevano bisogno di aria, di comprensione, di libertà, di fiducia. L’autonomia reciproca che si impara dai figli perché non c’è nessuno che te la può insegnare. C’erano state telefonate serali, scatti di nervi, a ripensarci non può negarlo. Lui diceva che era solo stanchezza. Minimizzava. Lei pure era stanca, forse distratta. Ma il dialogo non era mai mancato. Se l’aveva solo creduto, se non aveva saputo ascoltare, se aveva sbagliato su questo allora aveva sbagliato tutto. Aveva un problema e non lo sapeva.
“Me l’ha tenuto nascosto. Tutti questi anni insieme e non mi ha detto niente. E tu.”
“E io. Cosa volevi che facessi?”
“E tutto questo cosa…”
“Ma che ne so.”
“Ma io ne devo parlare con papà. Non posso far finta di niente. Se è vero.”
“Lascia perdere.”
“Ah no. Una spiegazione. Magari c’è una spiegazione. Ma a te ti doveva lasciare fuori. Non aveva il diritto.”
“Io ci ero rimasto di merda. Non ne volevo più sapere. Ma ci pensavo. Ci ho pensato per un sacco di tempo.” Simone fa una smorfia, piega le labbra in giù. Quante notti a rigirarsi nel letto, cercando una via d'uscita. La rabbia che aveva addosso. Prendeva a pugni il cuscino fino a farsi male, fino a perdere le forze e crollare nel sonno, sfinito.
Respira forte. Alza la testa, guarda sua madre negli occhi.
“Poi ho deciso che all’università avrei studiato proprio quelle cose, sarei entrato in azienda e avrei fatto a modo mio. Avrei tentato di convincerlo. L'avrei minacciato se necessario. Mi sarei imposto. Ma se non riesco a finire la maledetta tesi, cazzo. Scusa. Insomma.”
“Davvero?” Luciana sorride, “davvero pensavi di entrare in azienda e…”
“Boh. Mi pareva di non avere scelta. Allora meglio sapere bene le cose, meglio essere preparato. Pensavo che avrei avuto la scienza dalla mia parte, o almeno la tecnica. Lo stato dell’arte. Che avrei potuto essere più forte. Anche di lui.”
Luciana guarda Simone e le sembra di non averlo visto mai. Non riconosce la persona che ha davanti. Un uomo. E tutto quello che ha intorno è diverso da come lo ricordava. Si è persa, non sa più quando.
Lui abbassa gli occhi sulle dita appoggiate al lenzuolo. Gli trema un po’ la mano.
Suona il citofono. Voltano la testa insieme verso la porta:
“E’ papà.”

 

La data di scadenza è indicata sulla confezione - FINALE B

Molti anni dopo Simone sta guidando un vecchio Land Rover su una pista di sabbia compressa. L'aria che entra rovente dai finestrini aperti suggerisce colate di metallo arancione brillante. La polvere passa sotto le ruote e si sfoglia in nuvole nel lunotto posteriore. Il picco di Menelik è poco più avanti, quattro, cinque chilometri da percorrere a passo d’uomo. Non ci sono ostacoli, non ci sono curve ma le nocche sono bianche tanto stringe il volante. Trattiene i suoi pensieri con la stessa intensità, li strizza dentro i due solchi segnati sulla strada. Un movimento involontario gli fa vibrare il sopracciglio destro.
Arriva al picco poco prima di mezzogiorno, ci sono 50 gradi all'ombra, la sua. Il caldo è una presenza corporea che schiaccia i polmoni a ogni respiro. Intorno è tutto un piatto nulla di sabbia e sassi rossi, il sole è quasi allo zenit e niente si muove.

Il picco è uno spuntone di roccia che emerge dalla sabbia, ha le dimensioni di un palazzo neanche tanto alto, sette otto piani a occhio. Simone gira indietro l'ala del berretto, raccoglie una manciata di sabbia rosa e fine come cipria e se la strofina sui palmi mentre guarda attentamente la parete. Scruta ogni asperità per valutare il punto buono dove partire all'attacco. Gira intorno alla base, piega la testa di lato, stringe gli occhi e sceglie il versante nord che gli promette un migliore contrasto d’ombre.

Senza distogliere lo sguardo dal masso si spoglia, via i pantaloni larghi, la camicia cachi, via gli scarponcini e le calze che vanno a raggiungere in volo il resto degli indumenti sul cofano polveroso. Rimane solo con i boxer, tanto chi lo vede. Se lo vedessero lo prenderebbero per matto, nudo al sole sahariano, ma lui ha la pelle dura e poi è già abbronzato. L’unica concessione al buon senso sono gli occhiali scuri. Beve mezzo litro dalla borraccia e si ferma davanti alla base della parete, stropicciandosi le mani sabbiose.

"A noi due cazzone di un Menelik". Con le braccia e le gambe spalancate si avvinghia alla guglia di pietra, ogni muscolo contratto, concentrato nella salita.
Menelik è il nome che ha dato a questa formazione rocciosa la prima volta che l'ha vista. Non lo sa come si chiama. Ha provato a chiedere, sembra che non ce l'abbia un nome. Troppa fatica per la gente del posto nominare luoghi che nessuno frequenta. Qui è una fatica fare qualsiasi cosa.
Simone sale piano, si sposta a destra o a sinistra a seconda degli appigli, le dita delle mani e dei piedi aderiscono alle asperità, il sudore gli frigge lungo la schiena, l'aria è immobile. Il tic al sopraciglio è passato.
E' questa la vita che ha scelto per sé, una sfida quotidiana contro la natura. Un poema epico che si racconta fin da ragazzo, dove lui è l’eroe puro e invincibile, i buoni sono deboli, le bestie sono feroci. E cattivi hanno un bersaglio rosso disegnato sul petto. Nonostante i quattro anni di cooperazione non riesce ancora a uniformarsi alla filosofia locale del minimo spreco di energie, lui tira al massimo da sempre. A fondo scala. Si è costruito una posizione sgobbando senza risparmi. Già da quando frequentava l'università spendeva tutte le vacanze a scaricare camion sotto diversi soli equatoriali. Aveva scelto scienze e tecnologie alimentari apposta, assecondando la speranza di suo padre che lo vedeva a dirigere l’azienda. Non era stato facile fargli accettare il distacco, a ogni missione sempre più lungo. Augusto ancora lo aspetta, chiuso nel gabbiotto di vetro. Anche sua madre lo aspetta ma in modo diverso, senza pretese. Quello è un legame che non si spezza anche se si sceglie una vita senza legami.

Ora è il più giovane tra i responsabili della sua associazione. Potrebbe far valere i suoi principi. Potrebbe. Quando sei piccolo giuri che da grande non mangerai più uno spinacio nemmeno se ti ammazzano e poi va a finire che ti piacciono e li ordini pure al ristorante. A lui non piace per niente ingoiare compromessi. O non ha ancora imparato, O non è adatto per questo lavoro. O non è adatto e basta.

Arrampica piano piano quel suo sassone caldo, ogni tanto guarda in giù per valutare quanto ne ha domato questa volta. Si concede un'ora ogni tanto, raramente due. Poi deve tornare ai suoi doveri di capo, che già la parola gli mette il malumore. Viene qui al picco quando ha un po' troppe energie da dissipare, si dice con un sarcastico eufemismo.
Stamattina per la rabbia stava per alzare le mani su un collaboratore locale. Non ce la fa a sopportarla quella rassegnazione impermeabile. E’ la terza volta che l'inventario del container non coincide col contenuto, ha controllato e ricontrollato. E non sono piccoli ammanchi. Un terzo sul totale. Le derrate che ricevono bastano appena per mantenere il villaggio al livello di sussistenza, ogni sacco di farina in meno vuol dire pance vuote alla sera, stomaci che brontolano la notte, zero energie al mattino. Non c’è un’economia locale, non si può coltivare. Fabbricare poco. Allevare pochissimo. Quelle mance coatte che vengono prelevate a ogni frontiera gli fanno venire voglia di spaccare tutto.

Simone lo sa che l’alternativa sarebbe perdere tutto il carico. Lo sa bene che se si impuntasse, se denunciasse, se combattesse in campo aperto le rappresaglie non si farebbero attendere. Potrebbero esserci anche botte e violenze.

Simone sa anche che questa è una guerra tra poveri. Chi ruba il riso, la farina, il latte in polvere lo fa perché ha fame o lo rivende per pochi soldi a chi ha fame. Non tocca a lui decidere chi ha più fame. O forse sì, forse è per decidere chi ha più fame che è stato mandato qui, che è stato promosso capo. No, è stato promosso perché nessuno ci vuole stare in questo trailer dell’inferno, gli è rimasto il cerino in mano, ecco la verità.

E poi non è neanche così. Fanculo.
Scende con un salto gli ultimi tre metri. Si attacca alla borraccia, l'acqua tiepida gli accarezza la gola.
Viene qui per sbollire la rabbia e per pensare. Soluzioni facili non ce ne sono e se ci fossero non farebbero per lui.

E' già buio. Sono passate da poco le sette, Simone entra nella piccola costruzione di mattoni crudi che chiama casa e si spoglia, assaporando già il piacere della doccia serale. Ma prima deve riempire il serbatoio, una tanica che ha appeso all’aperto, sul retro: pesca in un’altra più grande posata a terra. Sono venticinque pompate per cinque minuti di goduria.

Si toglie le scarpe e si massaggia i piedi secchi, sta mentalmente facendo i conti di quanti calzini puliti gli sono rimasti. E' seduto su una stuoia, non ci sono sedie né tavoli nella sua casa. La sua casa è una stanza, una porta senza porta e una finestra senza finestra. L'unico mobile è uno scaffale metallico dove ha sistemato la roba in ordinate pile, qualche scatola da scarpe per la biancheria. Il gabinetto è altrove. Avrebbe potuto abitare nella foresteria degli uffici, dove c'è qualche stanzetta spartana, il generatore per la corrente elettrica e soprattutto le porte, ma appena arrivato aveva preferito stare con la gente e poi gli era piaciuto qui. L'unica variante alle abitazioni dei profughi è l'amaca che ha teso sotto la finestra, lo tiene staccato da terra e gli sembra di stare più fresco.

Gli arriva il parlottare sommesso dei vicini. Sono tutti riuniti intorno ai catini del cous cous, nelle tende davanti alle case. Stasera è troppo stanco per unirsi a qualche famiglia, si aprirà una scatoletta di tonno qui da solo, ma prima la doccia, oh sì.

Un fruscio di stoffe interrompe i suoi pensieri

“Amina, sei tu?” dice allungando la mano verso la torcia. La risposta arriva prima della luce: “Simon, vuoi venire a bere il tè questa sera con noi?”

Amina è la figlia di Aziz, uno dei collaboratori locali dell’associazione. Un amico. Un fratello, direbbe Aziz.

“Sono stanco. Mi faccio la doccia e poi vado a dormire. Ringrazia la mamma per l'invito, e dì a papà che domani mattina gli devo parlare.”

La ragazzina non risponde, rimane per un po' ferma sulla soglia, una sagoma nera nel buio. Subito dopo sparisce.

Questa sera c'è la luna, si può fare a meno della lampada. Simone esce con l'asciugamano sui fianchi, gira intorno alla casetta e aziona la pompa a mano. Finalmente si abbandona allo scroscio dell'acqua, si strofina i capelli con gli occhi chiusi, si massaggia il corpo per togliere la polvere e il sudore della giornata. Quando l'ultimo rivolo è finito si volta per prendere l'asciugamano e gli sembra di vedere un lembo di stoffa sparire dietro l'angolo, ma è solo un attimo. Aguzza gli occhi e non c'è nulla, solo l'ombra di una nuvola spinta dal vento. Sospira. Si è abituato a tutto tranne alla mancanza di privacy.

Amina è seduta a gambe incrociate sulla stuoia, davanti a lei il bricco e i bicchierini. Ha acceso la lampada a olio, ha piegato i vestiti che Simone aveva gettato in un angolo.

Simone scuote la testa. “Amina, Amina” Lei sorride, il bianco degli occhi luccica, le sue piccole mani esperte versano il liquido scuro. “Com'è andata la tua giornata?” le chiede sedendosi. Amina gli porge il bicchierino, “bene” fa una risatina e abbassa gli occhi.

Il tè è forte e amaro, lo manda giù in un sorso e butta fuori il fiato in un mezzo colpo di tosse.

Amina sta già preparando il secondo. “Amaro come la vita, dolce come l'amore e soave come la morte” dice lui, restituendole il bicchierino. Lo dice ogni volta. Sono noioso, pensa. O forse no. Qui è normale la ripetizione degli stessi gesti antichi, delle stesse parole. Nessuno si sogna di scherzaci sopra.

Però gli ci voleva, sente la stanchezza sciogliersi in pigro rilassamento. Beve il secondo con più piacere e allunga le gambe, appoggiandosi alla parete. “Cosa si racconta, Ami?” La ragazza sta mescolando con un bastoncino nel bricco, assorta nei suoi movimenti sobri, precisi. “Non lo so cosa si racconta” dice poi, “Racconta tu”.

Simone beve il terzo tè, quello soave, prima di fare qualsiasi altra cosa, è la regola. Non ha nemmeno più fame. Ha solo sonno, ma è presto per andare a dormire.

"Sei stata gentile a portarmi il tè. Stasera sono troppo stanco per raccontare. Vai a casa Amina. Va bene?”

Amina abbassa la testa. Stringe le labbra, zitta. Prende i bicchierini, il bricco, le cose per il tè e va via senza far rumore.

Simone sorride. Che bella ragazza che s'è fatta.

Prende un libro dallo scaffale, lo apre alla pagina piegata con un'orecchia e si accorge che deve rileggere lo stesso pezzo di ieri sera. Dopo mezz'ora è cotto e si butta sull'amaca. L'aria tiepida lo accarezza. Chiude gli occhi sulla visione del sorriso di Amina, i denti bianchi che risaltano nella notte.

E’ un'altra volta notte nel deserto. Simone è sotto la doccia. Oggi è stato ai depositi della Mezzaluna Rossa a controllare la consegna di un carico. Ha guidato quattro ore sullo sterrato e ha lavorato otto ore nei capannoni roventi, più una lunga riunione sulle procedure burocratiche per il prossimo gruppo di bambini che devono andare ospiti in Italia. E nell’inventario della merce arrivata mancavano centocinquanta chili di farina. Una giornata da mal di testa. Ha in mente solo la sua amaca, gli si chiudono gli occhi. Il sopracciglio destro si muove per conto suo. Ma è contento perché durante una sosta è riuscito a comprare dei regali per Amina e Shinta, sua madre. Due stoffe stampate a mano, grandi fiori blu per Amina, motivi arancioni per Shinta.
Amina quasi ogni giorno viene a casa, porta il tè, o dolci di datteri e miele, rassetta, pulisce. Lo fa quando lui è fuori, lo aspetta quando torna. E' inutile protestare, lei sorride, dice sì ma fa come vuole. E poi, perché protestare? Gli fa piacere trovare pulito e anche scambiare qualche parola in italiano, si sente meno solo. Per quanto fisicamente solo non è mai. Si tratta di altro, lo sa e non vuole pensarci.
Si strofina gli occhi sotto il getto dell'acqua e la vede. E' in piedi a meno di un metro. Lo sta fissando seria.
"Amina!” grida voltandole le spalle di colpo “sei matta!”
Prende l'asciugamano e cerca di coprirsi. C’è ancora acqua nella tanica e ha un istante di esitazione. In un fiato lei gli è vicina. E’ dietro di lui. Gli passa un dito sulla schiena bagnata. Lo fa scorrere lungo spina dorsale, dalla nuca giù tra le scapole e poi giù sui lombi. Giù.
Simone si spinge per quel poco di spazio rimasto, è contro il muro.
“Amina! Ti prego.” manda giù un fiotto di saliva, “non fare la sciocca. Vai a casa.” Cerca di fare la voce dura ma gli esce roca, è l’imbarazzo, è la stizza per la sua immediata risposta anatomica al contatto.
Volta la testa e non la vede più. E' uscita dal cerchio di luce della lampada, non è detto che si sia allontanata. Simone è irritato. Non potrà più godersi in pace la sua doccia privata. Dovrà cambiare le sue abitudini.
Rientra in casa, va spedito allo scaffale a cercare qualcosa da mettersi addosso. Lei è accosciata davanti al necessario per il tè.
“Adesso girati, per favore. Che mi devo vestire.” Si infila i boxer e un paio di calzoncini, tenendola d’occhio.
”Ascoltami bene.” Si siede davanti a lei, le gambe incrociate, le agita l’indice vicino alla faccia.
”Non ti permettere mai più di spiarmi mentre faccio la doccia. Hai capito?” Lei sostiene il suo sguardo, seria. Le trema appena il labbro inferiore.
“Simon” dice in un soffio. Abbassa la testa.
"Ti rendi conto che non puoi più fare questi giochetti?”
"No”.
"Dai. Non sei più una bambina.”
Lei alza gli occhi. Scintillano. Le ombre della lampada marcano i suoi lineamenti.
“Simon”, dice ancora.
Lui curva le spalle, scuote la testa.
“Non si fa. Lo sai che non si fa.”
Lei si china ancora più giù, stringe le labbra. Una goccia cade sulla stuoia e un’altra e ancora, un tremito le scuote la schiena, si accuccia su se stessa e singhiozza senza voce.
Simone sospira. Adesso non può nemmeno mandarla via bruscamente, dovrà aspettare che si calmi almeno un po'. Domattina dovrà prendere qualche provvedimento. Forse parlerà coi genitori. Ma non è tanto semplice spiegarsi col loro francese approssimato, è una cosa delicata, anche un po' ambigua. O forse non dirà niente e si sposterà nella foresteria. Non gli piace, ma si dovrà adattare. E' come andare in bicicletta su un filo teso tra due palazzi. Che fesso che è stato. Avrebbe dovuto mantenere un distacco più professionale. Gli urgeva di integrarsi e l'ha fatto, anche troppo. Ora deve riprendere il controllo.
Sospira ancora. Le striscia vicino. Le mette una mano sulla schiena.
“Amina”.
Lei alza il viso, prende la sua mano e se la passa sugli occhi bagnati, se la preme sulla guancia. Se la preme sulle labbra.
“Amina. Ti prego. Non fare così.”
“Sssht” gli scivola addosso, gli si rannicchia sotto l’ascella e con la sua mano si accarezza ancora la faccia.
“No. Basta.” Lui si stacca, ritira la mano e la nasconde dietro la schiena.
“Non si può fare questo.”
“Perché no? Non ti piace?”
“Che c’entra. Non si deve fare e basta. Non fare finta di non capire.”
“A me piace.”
“Eh. Lo sai che al mio paese mi metterebbero in prigione? Non si fa e basta.”
“Non siamo al tuo paese.”
“E’ lo stesso.”
“Perché?”
“Perché sei una bambina” appena finita la frase Simone si morde la lingua, ma ormai è andata.
“Ah ah, non sono più una bambina, l’hai detto tu!”
“Lo vedi? Sei una bambina che piange e ride.”
“Simon. Tu credi che io sono sciocca.”
“Ti prego Amina. Cerca di capire.”
“Non ti piace. E’ questo, vero? Non sono bella.” Ora guarda di nuovo in basso. Fa scorrere un dito sulla stuoia, disegna arabeschi invisibili.
“E’ perché non sono come te?”
“Ma cosa dici? Sei bellissima. Sei una bambina bellissima e io sono un uomo straniero.”
“Ma no. Tu sei Simon e basta.” Si avvicina ma senza toccarlo.
“Non sei un uomo straniero. Sei solo Simon.”
“Se vuoi che non ti prenda per una sciocca, non dire sciocchezze.”
“Lo sciocco sei tu. Non sai niente” dice, perentoria. Incrocia le braccia sul petto, alza il mento.
“Mia cugina Salka è sposata e ha un anno meno di me. Mia mamma ha avuto Yslem che aveva i miei anni, mia sorella…”
“Ma perché proprio io? Eh?”
“ …Whara è promessa, mia…”
“Vuoi che mi mandino via?”
“No.”
“E allora. Lasciami stare.”
“Ma io voglio.”
“Io non voglio.”
“I tuoi occhi dicono che vuoi. La tua bocca dice una bugia.”
Simone sospira. Sembra proprio una donna. Ma sa per certo che non lo è. Qui tutto sembra diverso da quello che è. Qui è tutto diverso. Qui è un casino. Un gran casino. E fa un caldo boia stanotte.
“La sai lunga tu. Quanti anni hai, gran donna?”
“Ne ho tredici e mezzo e so cucinare, so cucire, so pulire e so usare il computer”
“Al mio paese sei una bambina.”
“E tu? quanti anni hai?”
“Ne ho ventisei, che è proprio il doppio di te.”
“Al tuo paese sei un bambino anche tu. Ci sono stata tre volte a Livorno.” mostra il mignolo, l’anulare e il medio, “Io le so le cose. Io conosco la tua gente. Io ascolto.”
Simone sorride “Diavolo di una donna in miniatura. Hai sempre ragione tu, eh?”
Lei si avvicina di più.
“Lo sciocco sei tu” si appoggia, gli si infila tra le braccia.
“Ma non capisci che lo faccio per te, perché ti voglio bene?” dice lui. Le accarezza la testa.
Lei si strofina, lo spinge e si trovano sdraiati sulla stuoia, abbracciati.
“Non dobbiamo fare queste cose, Amina. Cosa dirà tuo padre, ci hai pensato? E la tua mamma?”
“Sposami.”
“Ah ah! Ma cosa dici. Non posso sposarti.”
“Perché no?”
“Perché non voglio.”
“Allora non mi vuoi bene. Sono brutta? Senti le mie puppe come sono grandi e piene” gli prende la mano, se la appoggia sul petto “I miei fianchi sono larghi e la mia schiena è forte, posso fare molti bambini.”
“Oddio.” Simone rotola via, lei lo raggiunge, gli si sdraia sopra. Lui la prende per le spalle, la stacca da sé, la rovescia da una parte.
“Basta. Non dire queste cose. Non dirlo mai più.”
“Perché?”
“Perché no.”
“Non è la verità?”
Simone chiude gli occhi. La verità. La verità è che fa caldo, un caldo boia. Respira forte col naso. Due, tre volte. Si mette le mani sulla faccia.
Quando era piccolo sua sorella gli prendeva tutti i giocattoli. Il lego, le macchinine. Gli prendeva i giochi in scatola anche se non li sapeva usare. Li portava in camera sua e diceva Mio! Mio! Poi dopo due giorni non se ne ricordava più e lui, senza farsi vedere, li riportava indietro. Che riccioli biondi aveva Cate. Chissà cosa starà facendo in questo momento.
Scuote la testa come un cane che esce dal fiume. Poi le pianta in faccia lo sguardo più cattivo che riesce a fare.
“Sì, è la verità. Sei bella. I tuoi seni sono grandi e morbidi. I tuoi fianchi accoglienti. I tuoi occhi brillano come venere accanto alla mezzaluna. La tua pelle profuma d’ambra e di rose, il tuo culo, poi, è una poesia. Sei più desiderabile di tutte le huri del paradiso.
Ma hai tredici anni e io non mi voglio sposare.”
Lei sbuffa. Scrolla la testa. Lo guarda come un bambino capriccioso.
“Va bene. Se non vuoi sposarmi allora sarò la tua concubina.”
“Ah ah, questo taglia la testa al toro.”
“Quale toro?”
Le dà un buffetto sul naso. Sorride. “Che cazzo di situazione” dice tra sé “e non le ho nemmeno dato il regalo.” Il tic è passato. Il nervoso è passato. Inshallah.
“Senti. Si è fatto tardi. Io sono stanchissimo, non ne posso più. Adesso vado a dormire.
Tu.
Tu fai quello che ti pare.”
“E il tè?”
“Niente tè.”
“Tanto si era freddato” alza le spalle, sorride.
Simone si tira su faticosamente, va a sdraiarsi nell’amaca. Lei lo segue. Gli si rannicchia di fianco.
Dalla finestra entra la brezza tiepida del deserto.

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Il cielo della Brianza è grande quasi come il cielo della Norvegia #24aprile
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"Scrivere è il mio gioco preferito" il mio motto è piaciuto anche all'amica Freevolah che l'ha interpretato così su Instagram.

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