testata camel

Stamattina - per modo dire: si tratta della mattina del 20 febbraio 2016 - ho fatto tre cose sul più famoso e frequentato dei social network.

 

Per primo ho fatto gli auguri di compleanno a un caro amico. Una volta ci vedevamo molto spesso e ci sentivamo tutti i giorni, al telefono o via mail. Avevamo parecchie cose in comune, svago, lavori, figli a scuola, barche, vacanze. Quasi sempre mi dimenticavo del suo compleanno perché non c'era nessuno lì a dirmelo e non tenevo un'agenda, un cicalino nel telefono, che so, un alert che mi mandasse una mail. Fa niente, siamo stati tanto bene lo stesso.
Adesso non ci vediamo quasi mai, si è trasferito al mare. Però non manco di fargli gli auguri al compleanno visto che c'è quel ficcanaso del social network che dicevo prima che non mi lascia in pace fino a che non l'ho fatto.

La seconda cosa riguarda la morte di Umberto Eco, che è stata annunciata fin dalla prima mattina. Diventa doveroso decorare di necrologi la propria bacheca? Di solito non lo faccio, se posso evito, ma nella mia rassegna stampa del sabato mattina ho trovato un bel pezzo di Stefano Bartezzaghi, un ricordo molto personale del professore che era Eco, della sua passione per l'insegnamento, infatti dopo il megasuccesso interplanetario del Nome della rosa ha continuato ad andare in università tre volte la settimana, chi glielo faceva fare? La sua libido docendi, la passione che si trasmette e crea un legame vero tra il Maestro e i suoi allievi.

La libido docendi il funerale di Umberto Eco e il mio professore di Filosofia

La terza cosa, un minuto dopo, sono stati gli auguri e i complimenti per la nascita di Sara, la nipote di una signora che conosco.

Eccomi qua, a parlare della vita, della morte e tutto quanto. Tutto quanto passa il noto social network, intorno al quale è ormai difficile dire qualche cosa di personale, originale o che non sia già stato analizzato in tutte le salse, la conclusione è ovvia e te la risparmio, caro unico lettore di questo blog.

Però qualcosa posso ancora dire circa la libido docendi, che è quel piacere profondo che provano alcuni insegnanti nel trasmettere il sapere ai propri fortunati allievi, e molto spesso suscitano un piacere analogo per la materia o per il processo stesso dell'apprendimento. Ne ho avuti pochi, forse uno solo, ma bastante.
Ero in terza liceo, filosofia era alla terza ora e io stavo al terzo banco. Se la cabala ha qualche fondamento di verità era una situazione perfetta. Ma purtroppo un turbamento amoroso di cui si è persa l'origine mi aveva colto a metà della lezione. Le lacrime premevano nei condotti appositi, il proff spiegava e io non sapevo che fare. Si nota di più se metto la testa sul banco o se resto su dritta come se niente fosse? La seconda che hai detto, la posizione eretta se non altro mi risparmiava i commenti della metà classe dietro. Tanto lui mica si accorge, non mi vede neanche.
Dunque le lacrime hanno cominciato a scendere sulla mia faccia che tentava di rimanere impassibile, sguardo dritto, mento proteso, spalle squadrate. Lui, seduto al suo posto in cattedra, probabilmente ha visto. Anzi, certamente ha visto, meglio ancora: ha guardato. Ha guardato me. L'essere è e non può non essere. L'essere è e il non essere non è. Chissà cosa avrà pensato, forse che Parmenide mi aveva mossa a commozione? Forse che la difficoltà dei concetti mi aveva sopraffatta in una reazione di stizza o impotenza? Forse che mi ero presa una cotta per lui? Non lo so cosa aveva pensato, so quello che ha fatto. Si è alzato, è sceso dalla pedana senza smettere di parlare, e di guardare me. Per fortuna non è venuto al mio banco, del resto non era uno sprovveduto, no che non lo era. Si è fermato davanti alla prima fila, si è accomodato con le spalle alla cattedra e mi ha sfidata. Ha continuato la sua lezione come se parlasse a tutti, ma parlava a me, solo a me. Sparpagliava per la classe domande retoriche, ma il punto interrogativo lo ficcava nei miei, di occhi. La pausa di sospensione era me che aspettava. La costruzione sintattica era una freccia che puntava al mio banco, al mio già fiorente petto, forse.
Ammetto: sventurata ho risposto.
Aveva concentrato la sua libido docendi su di me come una lente i raggi del sole, e io, come le foglie secche, ho preso fuoco.
Non ho poi fatto filosofia all'università, anche se quell'anno lì presi nove in pagella e Parmenide me lo ricordo ancora, come mi ricordo ancora il nome e la barba del professore.

E qualcosa è rimasto, vai a sapere. Sarà questa mania di interrogarsi intorno alla verità, cosa diavolo è e cosa non è, chi la fa, chi la dice e chi la nega e chi la piega. Sarà lo spirito di contraddizione. Saranno le parole crociate senza schema tra le pagine chiare e le pagine scure.

al funerale di umberto eco i suoi amici raccontavano barzellette

Al funerale di Umberto Eco i suoi amici raccontavano barzellette

Mi piacerebbe che anche i miei amici lo facessero: raccontate barzellette al mio funerale e non piangete, cari.

Sono andata a casa sua, ero un po' in anticipo e l'ho visto uscire. C'era ancora poca gente, più che altro giornalisti e televisioni.

Al castello invece c'era il cortile pieno e tanti sono rimasti fuori, non ci stavamo tutti.

Moni Ovada ha raccontato quella del rabbino e della fetta di pane imburrato caduta dalla parte dove non c'era il burro. No, non te lo dico come andava a finire, la prossima volta vedi di esserci anche tu.

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